Ottobre 2022 – Ateiggär

 

Cupi tempi verranno, e cupi sono i tempi che vennero prima di questi: ce lo mostrano in tutto il loro perverso splendore oscuro due autori svizzeri per nulla nuovi a queste pagine, nel conclusosi ottobre padri del disco più bello della mensilità. Gli Ateiggär, che più d’un cuore avevano già irretito con il fulminante mini “Us D’r Höll Chunnt Nume Zyt” nel 2019, si prendono infatti oggi la dovuta acclamazione con scrosci di applausi ad otto mani, per il merito del loro debutto su full-length intitolato “Tyrannemord” e pubblicato poco più di una settimana fa per Eisenwald Tonschmiede. Ma ci deliziano a seguire e nondimeno anche i canadesi Gevurah con il loro austero ed oppressivo cammino di mortificazione della carne ed elevazione dello spirito verso l’abisso, che sebbene siano applauditi con “Gehinnom” (Norma Evangelium Diaboli, a costo di suonar prevedibili noialtri) da qualche mano in meno, proprio queste ultime affaccendate come sono non lesinano rossore sui propri palmi per farvelo provare – così come il secondo album del duo del Québec -che fortunatamente suona tutto tranne che proveniente dal Québec- non ne lesinerà dalle vostre guance.
Due nomine singole quanto singolari chiudono poi come d’abitudine l’articolo odierno sul meglio del mese conclusosi, ma ve le lasciamo scoprire soltanto dopo che avrete donato la dovuta attenzione agli importanti moniti incastonati nella musica dei primi due apprezzatissimi dischi in lizza. Il resto potrà non essere noia, come recitava un classico di un celebrato cantautore nostrano, ma è di certo vanità…

 

 

Con il furor melancholicus tipico dei figli di Saturno, due tra i più attentamente seguiti musicisti estremi di Svizzera compongono un portentoso primo lavoro esteso in cui si respira perdizione, corruzione e con esse tutta la polvere mortale di antiche cattedrali la cui oscurità mal nasconde il peggio dell’animo umano sotto la coltre marmorea delle migliori intenzioni costellate di forza, supremazia, tirannia, cupa frenesia. Partiture regali e maledette all’unisono esprimono il terrore di una cospirazione segreta che si cela nell’ombra fetida di sale laccate – nel lato più oscuro del potere secolare, nei saloni di dissoluzione in cui si annidano confidenti oscuri e sintetizzatori, tastiere sinfoniche che vi risuonano ovattate ma che solo col passare degli ascolti si comprende quanto in realtà dettino la strada al fluire -sempre torrenziale, questo sì- degli altri strumenti. Le chitarre si spendono in giri di grande complicatezza ed inventiva che potrebbero altrove fare la fortuna di intere discografie senza grande sforzo, semplificate con notevole sapienza nei momenti in cui un refrain deve portare a casa un risultato di memorabilità che ha dello squisito. Pad arcturiani guardano insomma alle stelle e all’alchimia di suono non coi più soliti Emperor, su similari coordinate, e nemmeno così tanto dei Kvist plurimamente omaggiati nell’EP del 2019 – bensì con la grandezza atmosferica ed immaginativa che il circolo Helvetic Underground Committee sta mattonando con pazienza disco dopo disco, uscita dopo uscita.”

Il piccolo gioiello “Us D’r Höll Chunnt Nume Zyt” (finalmente e dignitosamente allegato al nuovo full-length anche per i fruitori di CD) non era che la prima avvisaglia di un mondo sonoro che partendo da un moto di devozione per un certo tipo di estremismo d’annata lottava al contempo per evolversi in un vasto universo dai risvolti ben più complessi e sfaccettati: forti di un nuovo approccio alla composizione dalla palette cromatica diversissima da quella impiegata negli Ungfell, i due incantatori evocano qui un’inedita sinfonicità stratificata e inebriante, che risuona negli spazi sonori con la solennità degli ottoni e con l’imprevedibilità contorta di gonfie volute d’incenso. L’inaspettato cantato più gutturale duetta con la moltitudine di cori e voci teatrali e, anche quando l’atmosfera si fa più grave e sacrale, la nera miscela alchemica dalle auree iridescenze degli Ateiggär mantiene con prepotenza quella dinamicità magnetica a cui gli elvetici ci hanno abituati. Se affinare uno stile distinguibile di fare musica rappresenta già di per sé un’impresa, riuscire a declinarlo verso fogge così varie è quasi strabiliante: “Tyrannemord” è il lavoro di due fuoriclasse del Black Metal dalle idee chiare e da un paio di anni in un stato di ispirazione fulminante.”

Gli Ateiggär sono l’ennesima espressione artistica del duo svizzero formato da Vâlant e Menetekel, il quale riesce ancora una volta a portarci un prodotto di alta qualità che vale la pena essere discusso ed analizzato. Le sonorità che contraddistinguono questo progetto sono principalmente di natura epica, più oscurantista del suo gemello ormai più celebre, e vanno ad impregnare l’atmosfera di un’essenza mistica che riesce a rendere ogni traccia tanto poetica quanto disturbante. A trascinare l’intera opera ci pensano le varie componenti vocali ed una serie di inserti sinfonici molto ben amalgamati ad una componente Black Metal basata sugli up-tempo che non cade mai nella banalità mostrando eclettismo ritmico ed una piacevolissima progressione brano dopo brano. Sarà che l’album è fresco di pubblicazione quanto di fattezze, sarà che era un po’ di mesi che non sentivo un nuovo prodotto di questa qualità, ma il qui presente “Tyrannemord” è per chi scrive il lavoro più ispirato di questi due musicisti dai tempi del debutto degli Ungfell: assolutamente da non perdere.”

“Tyrannemord” – o di prospettive rovesciate e percezioni invertite; lanciatisi in un’operazione che ne sottolinea una volta ancora la caratura artistica inestimabile, gli stessi biechi personaggi dietro gli Ungfell ampliano l’universo narrativo di questi ultimi ed oppongono alle superstizioni della bassa manovalanza contadina gli altrettanto oscuri intrighi della nobiltà ecclesiastica. A prescindere dal gusto personale il quale potrebbe comunque far propendere maggiormente verso i racconti di streghe e maledizioni musicati dai due nelle luride vesti di cantastorie montani, è sufficiente tale raison d’être a dare un tutto enorme nuovo senso, corpo e sostanza alla nuova creatura Ateiggär, casomai non bastasse la curiosità di sentire il duo elvetico alle prese con una registrazione monolitica e fondamentale ai fini dell’emancipazione del progetto dai suoi stessi ideatori. Con sullo sfondo la stessa fantasia compositiva di sempre, una diversa sfumatura di nero prende ora il sopravvento tra cori monastici e bisbìgli confusi, mentre i preziosi tocchi di tastiere sinfoniche -e non- arricchiscono il genio di due fuoriclasse ormai semplicemente inattaccabili, e destinati a deliziarci ancora a lungo con le loro visioni da incubo.”

La raffinata ricercatezza sotto una coltre di terremotante finis mundi che è la traduzione in parole di qualcosa come il suono di “Gehinnom”, il secondo aborto dei preannunciati Gevurah, fuori nel continente per la nostra adoratissima NoEvDia e oltreoceano per una non troppo meno blasonata Profound Lore. Un notevole pedigree discografico come biglietto da visita, non c’è che dire – ma quel che troverete qui, ve ne accorgerete presto, lo merita tutto.

“Quello che i canadesi Gevurah creano in “Gehinnom”, il loro portale di peccato e mancata redenzione dove un fuoco spaventoso brucia eterno nonché un secondo full-length graziato da una pazzesca maturazione compositiva rispetto al debutto (il già buon “Hallelujah!”, 2016), non è nulla di meno di un mare nero, pieno di orribili pericoli e certezza di morte di fronte alla tempesta in corso d’opera. Un lavoro burrascoso e fine nella sua spietata graniticità, estremamente minaccioso, viscerale, quasi isterico nel suo essere profondamente implacabile per ritmi e schiacciante peso. È la colonna sonora del naufragio dell’anima che ascende nell’austera, solenne discesa cava e lontana dall’apparenza; sommersa come un relitto ad oriente dell’Eden, a sud del Paradiso, del sacro e dell’espiazione, con la prua fedelmente rivolta verso il nulla. Black Metal che non dimentica delle profonde radici Death, le quali, a loro volta, non inficiano minimamente sulla pregiata tessitura melodico-atmosferica che i due sanno creare con eleganza – e anzi, rendono ancora più crudo e gretto questo maremoto in cui si resta inevitabilmente inghiottiti, in questa distesa di pece senza confini da cui fuoriescono soltanto tenebre.”

Movimenti caotici e abrasivi si ingolfano fra le tormente sabbiose di “Gehinnom”: le frequenze nere del sound cupo e annichilente sfrigolano in un tappeto ritmico intessuto del dolore della devozione e chiazzato del sangue più ardente. Sbrigliando le catene di un carattere sottilmente particolare, visivamente catturato alla perfezione dal talento di Denis Forkas e che si fonda prima di tutto su una quantità di riff e soluzioni genuinamente ispirate che basterebbero da sole a farne un ottimo disco, i Gevurah infondono nel loro secondo full-length un luttuoso equilibrio tra lo spessissimo e frantumante muro di chitarre -sempre sferzanti un’aria ricolma di nebulosa fatalità- e un velenoso e contorto arabesco di melodie sotterranee e solismi a spirale che, incastonati e centellinati come sono, emergono gradualmente solo ascolto dopo ascolto. Che siano chiamati a raccolta gli insoddisfatti dall’ultimo Akhlys e le vedove degli Aosoth: qui, ad est dell’Eden, troveranno pane per i loro denti – se non persino di meglio.”

Gli schiaffoni non finiscono qui, perché i terzi contendenti di oggi ne sono armati fino ai denti e (come vi spiegherà tra un attimo il nostro Ordog) suonano letali come poche altre cose udite in tempi recenti. Signori e signori -perché ci si rifiuta non senza criterio di credere che una signora possa ascoltarli- i Daeva di “Through Sheer Will And Black Magic” (20 Buck Spin Records) sono ciò che sembrano – casinari non per necessità bensì per devozione, ma con qualcosa in più a fare la differenza…

“A fronte di una micro-scena di riferimento nella quale per risultare credibili basta rimandare (invero più esteticamente che musicalmente) ai Celtic Frost sbattendoci però in mezzo due croci capovolte, gli esordienti su formato esteso Daeva rispondono non soltanto con una ben più ficcante iconografia fantasy/peplum/demoniaca ma soprattutto vomitando a getto continuo le bollenti fiamme dell’Ade con una malvagità nell’architettura letale di brani e sound che renderebbe fieri gli in confronto ora bolsissimi Desaster e Deströyer 666. A differenza delle sin troppe nuove leve nel panorama Black/Thrash le quali concentrano in quest’ultimo stile i bocconi migliori abbandonandosi poi alla facile cacofonia quando c’è da affrontare il versante estremo, qui il senso del riff non viene mai perso ed ogni linea, si trovi essa su di un frastornante blast oppure uno scatenato skank-beat, rimane al centro del superbo mixing (accostandosi più in ciò al talento degli Ultra Silvam e della progenie Venom) e costituisce il vettore ideale per un ascolto rapido ma niente affatto indolore: dalla prima deflagrazione dopo l’intro al massiccio finale in cui, come da tradizione, esce fuori quella punta di epicheggiante melodia che non può non far ricascare il dito sul tasto del replay.”

Rilasciato l’ultimissimo giorno del mese senza bandiere né squilli di fanfare come si conviene ad un simile progetto, “The Haunting” dei misteriosi Bad Manor non soltanto è con ogni probabilità la sorpresa imprevista del mese – ma, proprio perché fuori solamente dal 31 in formato digitale (il CD arriva a fine novembre per Avantgarde), anche quel disco che ad entrare qui ce l’ha fatta proprio per un pelo e qualche ascolto dell’ultimo minuto ottimamente piazzato…

“Piacevolmente disperso da qualche parte a metà strada tra le spiritiche fascinazioni estetico-liriche e narrative di un King Diamond, l’efferatezza scarna di suono di dei Bekhira, dei Belketre e dei Parnassus, e dell’avanguardistica, assurda teatralità non solo vocale degli A Forest Of Stars (il cui istrionico cantante o canta anche qui in traduzione d’arte da Mister Curse a Monsieur Malediction, come si direbbe facilmente udibile, oppure ha in giro un imitatore in timbro e fattezze che più che quello di clone sputato registra un primato in fatto di figliazione spirituale con messer Dan Eyre), “The Haunting” degli anche concettualmente particolarissimi Bad Manor è, fin dal primo ascolto, un lavoro interessantissimo e decisamente da non lasciarsi sfuggire. E benché l’imponderabilità sia musicalmente sempre dietro ogni angolo, la facilità d’ascolto e la memorabilità di svariati episodi all’interno dei brani fanno sì che le sue malie lavorino anche a disco spento: tra scudisciate affilate come lame arrugginite al tetano, melodie sinistre e un’imprevedibile prova vocale d’eccezionale platealità, qualcosa di maligno e d’infestante si annida nei recessi inquieti di questo debutto – come tra le vecchie mura di una casa dai seicentosessantasei occhi che deve… morire…”

Insomma, l’unicità e la poliedricità variegatamente assortite l’hanno fatta da padrone in tutti e quattro i dischi proposti anche oggi in questo presumibilmente terzultimo riepilogo mensile del 2022. In attesa di scoprire cos’altro ci riserverà l’annata giunta alle sue due ultime cartucce, forse una inaspettatamente povera numericamente parlando -volendo gettarsi un occhio indietro giunti a questo punto- ma sicuramente florida guardando invece alla pura e semplice qualità di ciò che di meglio vi si è scavato fuori, procediamo con qualche addizionale suggestione in forma audio da gettare in pasto a chi legge: gli Urfaust, che in un modo o nelll’altro quando pubblicano fanno sempre del casino, hanno rilasciato un EP sul quale i lavori erano terminati nell’ormai così vicino tanto quanto lontano 2020 (l’“Hoof Tar” che, più che spezzare attese o introdurre nuovi discorsi nell’operato del duo, funziona come coda diversiva a metà tra l’ultimo “Teufelsgeist” ed il suo predecessore “The Constellatory Practice” – facendoci per inciso domandare tra noi per quale stile opteranno i due stramboidi in un futuro full);  gli Ymir, con il nuovo “Aeons Of Sorrow” che succede di due anni praticamente esatti al debutto omonimo (sempre Werewolf Records la direzione in cui guardare), restano poi consigliati solo a chi proprio non riesce a stare per più di un anno non tanto senza un nuovo Emperor, ma nemmeno senza un nuovo Vargrav, e coloro i quali abbiano dunque già apprezzato a suo tempo il primo disco (ma a loro consigliati nondimeno…). E i Darkthrone? Loro persistono ammirevolmente testardi e noncuranti a farci del male -non nel senso buono cui siamo soliti attribuire alla cosa- con… Beh, quel che fanno ora. Qualcosa che, vogliate crederci sulla fiducia se mai vi abbiamo consigliato qualcosa di buono per non gettare alle ortiche il proprio prezioso tempo inseguendo un sogno che ormai pare essersi definitivamente spento da tre dischi a questa parte, riesce a trovare in un simile corredo visivo l’ultimo dei suoi problemi. Non che questo non lo sia, in fin dei conti, un forse simpatico ma pur sempre effettivo problema…

 

Matteo “Theo” Damiani

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